Originally published in Tema Celeste, N. 81 July-September 2000, Milan, pp. 76-81.


Eduardo Kac

Daniele Perra

Nell’arte interattiva il ruolo cognitivo dello spettatore si manifesta fisicamente: sia
nel percorso aperto dell’opera sia nell’intelligenza sinestetica dell’utente.

Daniele Perra: Hai iniziato il tuo percorso artistico con una serie
di performance nei primi anni ’80 quando ancora vivevi in Brasile,
tua terra d’origine. Da allora, hai sperimentato numerosi altri
mezzi. Cosa ricordi di quegli anni?

Eduardo Kac: Le mie performance, tra il 1980 e il 1982, hanno avuto luogo
prevalentemente in spazi pubblici, come la spiaggia di Ipanema o la piazza centrale
chiamata Cinelandia a Rio de Janeiro. Quel lavoro nasceva come reazione alle
condizioni specifiche di quel tempo e di quel luogo — un periodo di transizione
durante il quale il paese era ancora governato dalla dittatura. Erano interventi molto
politici che impiegavano un linguaggio colloquiale, umoristico e
contemporaneamente media diversi, come strumenti per coinvolgere un pubblico
più vasto.

L’intento era quello di recuperare il senso di spazio pubblico e di dar vita ad una
discussione intorno al corpo non più inteso come vittima delle torture e della
repressione politica bensì come luogo di piacere.

DP: Un "capitolo" importante della tua ricerca è rappresentato
dall’Holopoetry (poesia olografica), termine che hai coniato nel
1983. Quali sono gli elementi alla base di questa forma artistica?

EK: Un Holopoem è una poesia concepita e realizzata per mezzo dell’olografia ed è
nata per liberare le parole dalla pagina. L’Holopoetry è innanzitutto organizzata in
uno spazio tridimensionale, immateriale e, diversamente dalla poesia visiva
tradizionale, cerca di esprimere dinamicamente la discontinuità del pensiero: la
percezione di una poesia olografica non è né lineare né simultanea, ma avviene
attraverso frammenti visti in modo casuale dall’osservatore e in base alla posizione
che quest’ultimo assume nei confronti della poesia che guarda. La percezione
spaziale dei colori, i volumi, i gradi di trasparenza, i cambiamenti di forma, le
posizioni relative di lettere e parole, l’animazione, l’apparizione e la sparizione delle
forme sono elementi inseparabili dalla percezione sintattica e semantica del testo.

DP: In occasione dello sbarco di Pathfinder su Marte hai scritto:
"Oggi, 4 luglio 1997 è un giorno eccitante per l’arte". Cosa
intendevi dire? C’è un rapporto diretto tra l’invasione di Marte e le
nuove forme d’arte contemporanea?

EK: Credo che oltre alle opere d’arte che utilizzano la tecnologia in modo creativo,
vi sia una sfera della produzione sociale che crea quelli che chiamo informalmente
"opere di cultura". Queste "opere di cultura" sono oggetti, processi, sistemi o eventi
— sicuramente non opere d’arte — che hanno la forte abilità di stimolare la nostra
risposta cognitiva e emozionale.

Se nel 1896 un telegramma impiegava 50 minuti per essere trasmesso da una parte
all’altra del mondo, alla fine del ventesimo secolo un robot telecomandato e
controllato dalla Terra è stato inviato su Marte e il mondo intero ha potuto
osservare il pianeta da vicino, grazie ad un collegamento televisivo in tempo reale.
Ho sviluppato l’estetica della telepresenza a partire dal 1986 e la vicenda del
Pathfinder ha rappresentato una conferma della mia intuizione che proprio la
telepresenza sarebbe diventata in futuro una parte della nostra vita quotidiana.

DP: Nei tuoi lavori hai utilizzato molteplici mezzi di
comunicazione, dal fax in Elastifax, alla televisione in Interfaces,
dalla telepresenza in Ornitorrinco Project fino ad Internet in
Uirapuru, opera, quest’ultima, con la quale hai ricevuto un premio
alla Biennale ICC di Tokyo nel 1999. Da cosa nasce il tuo
interesse nei confronti delle nuove tecnologie? Come hai impiegato
i nuovi media nelle tue opere?

EK: In arte assistiamo a numerosi cambiamenti di paradigma nei quali l’indagine del
sé — caratterizzata ad esempio dalle performance autobiografiche o
dall’Espressionismo Astratto — è sostituita da situazioni dialogiche. Con la
globalizzazione dell’economia e con l’estensione delle reti di comunicazione, il
principio di connettività è divenuto quasi ubiquo, e si è sostituito al discorso
unidirezionale, proprio della pittura e del video a un canale.

La mia ricerca è sensibile a tutto ciò ma allo stesso tempo spera di contribuire al
passaggio verso una cultura post-biologica. Il mio ruolo d’artista non è quello di
offrire all’osservatore un lavoro completo da interpretare, quanto piuttosto di
condividere con lui gli strumenti che lo compongono — l’interfaccia, il corpo
robotico, i canali di telecomunicazione. L’osservatore diviene così responsabile della
propria esperienza individuale e può innovare l’opera stessa. Nel corso degli anni ho
cercato di modificare le nozioni di evento, di performance o di installazione,
aggiungendo elementi come la telerobotica. È per questa ragione che utilizzo
termini quali "telepresenza", "biotelematica", "arte transgenica": nuovi concetti
hanno bisogno di un nuovo vocabolario.

Uirapuru, per esempio, unisce telepresenza, realtà virtuale e Internet. Una struttura
a forma di pesce volante sorvola una specie di foresta ricreata nello spazio
espositivo e, in tempo reale, risponde ai comandi degli spettatori presenti in quello
spazio e degli utenti collegati ad Internet che interagiscono con l’immagine
elettronica del pesce. All’interno della galleria vi sono inoltre sensori che tracciano
il movimento della struttura telecomandata creando dei modelli tridimensionali, in
modo che l’immagine digitale di Uirapuru si muove nello spazio virtuale secondo
il movimento del pesce presente in galleria.

DP: Le installazioni interattive non sempre offrono la possibilità
all’utente di modificare un percorso già stabilito dall’artista. Come
riesci a superare questo limite e ad offrire allo spettatore gli
strumenti per interagire con l’opera, apportando direttamente il suo
personale contributo?

EK: Progetto i miei lavori per incorporare le decisioni prese dai partecipanti, siano
essi umani, piante, uccelli, mammiferi, insetti o batteri.
Ogni situazione, sia nell’arte che nella vita, ha i suoi parametri e i suoi limiti. Non
si tratta dunque di eliminare completamente queste restrizioni, ma di mantenere
l’opera sufficientemente aperta così che l’esperienza dei visitatori — il loro modo di
pensare, di percepire e di agire — si manifesti in maniera significativa all’interno di
essa. È necessario perciò lasciare al fruitore una sostanziale porzione di controllo
rispetto alla risposta programmata.



L’interattività è importante soltanto quando è strutturalmente significativa. Questo
mutamento si manifesta anche in altri ambiti: la fisica riconosce l’incertezza,
l’antropologia diviene relativistica, la critica letteraria si distacca dall’ermeneutica.
In altre parole, il ruolo cognitivo giocato tradizionalmente dall’osservatore
nell’interpretare un lavoro artistico, oggi, è manifestato fisicamente, sia nel
percorso aperto e rizomatico dell’opera, sia nell’intelligenza sinestetica dell’utente.
Nell’arte interattiva, la partecipazione non è una metafora: è il vero processo
attraverso il quale l’opera d’arte si trasforma in essere.

Interfaces, per esempio, è un evento interattivo di telecomunicazione al quale
hanno preso parte nel 1990 due diversi gruppi di artisti collocati rispettivamente a
Chicago e a Pittsburgh. Si basava sulla trasmissione e sulla sovrapposizione
casuale di immagini inviate dai componenti dei due gruppi, con un collegamento
televisivo. Su un unico grande schermo, posizionato presso The School of the Art
Institute di Chicago, venivano proiettate le immagini trasmesse, ognuna delle quali
impiegava circa otto secondi per essere visualizzata tanto da sovrapporsi e creare una
sorta di dialogo visivo ricco di improvvisazione e sorpresa.

DP: Recentemente hai coniato il termine "Transgenic Art" (arte
transgenica) e hai dato vita ad alcune opere come Genesis (1998-99)
— esposta per la prima volta alla scorsa edizione di Ars
Electronica a Linz — che indagano il mondo dell’ingegneria
genetica. Puoi spiegarmi questa nuova fase della tua ricerca e i
meccanismi che rendono Genesis, per esempio, un’opera
transgenica?

EK: L’arte transgenica che propongo è basata sulle tecniche utilizzate
dall’ingegneria genetica o dalla genetica molecolare per trasferire geni sintetici in un
organismo o materiale genetico da una specie a un’altra, al fine di creare nuovi
esseri viventi. La natura di questa espressione artistica è definita non solo dalla
nascita e dalla crescita di una nuova pianta e di un nuovo animale, ma soprattutto
dalla relazione tra l’artista, il pubblico e l’organismo transgenico.

I visitatori possono portate con sé le opere transgeniche per farle crescere nei loro
giardini o allevarle come compagni domestici. Dal momento che ogni giorno
numerose specie rischiano l’estinzione, l’artista può contribuire ad incrementare la
biodiversità globale, inventando nuove forme di vita. Le implicazioni di natura etica
sono dominanti in ogni opera d’arte, ma diventano più cruciali che mai nell’ambito
dell’arte biologica, quando un essere vivente rappresenta l’opera stessa o parte di
essa. Dal punto di vista della comunicazione tra le specie, l’arte transgenica richiede
una relazione dialogica tra l’artista, la creatura-opera e coloro che vi entrano in
contatto.

Genesis è un esempio di arte transgenica che esplora la complessa relazione tra
biologia, fede, tecnologia dell’informazione, interazione, etica e Internet.
L’elemento chiave del lavoro è un "gene d’artista", un gene sintetico non presente in
natura, che ho creato traducendo un passo estrapolato dal Libro della Genesi in
codice Morse e convertendo il codice stesso in una combinazione di DNA, in base
ad un principio sviluppato appositamente per questo lavoro. "E l’uomo domini sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo, e su ogni essere vivente che striscia sulla
terra", recita la frase che fu scelta per le implicazioni riguardo alla nozione dubbia,
seppure sancita dalla divinità, della supremazia dell’uomo sulla Natura. Il codice
Morse è stato scelto perché fu il primo linguaggio impiegato nel radiotelegrafo e
rappresenta l’alba dell’età dell’informazione — la genesi della comunicazione
globale.

Il gene di quel passo è stato incorporato in alcuni batteri, mostrati in una galleria. I
partecipanti alla mostra, attraverso comandi trasmessi via Internet, potevano
accendere una luce ultravioletta collocata nello spazio espositivo causando una vera
e propria mutazione biologica nei batteri. Una volta terminata l’esposizione, il
DNA dei batteri è stato trasformato nuovamente in Codice Morse e poi riportato in
lingua inglese. La mutazione avvenuta nei batteri ha così modificato la frase biblica
di partenza.

DP: I tuoi progetti sono sempre molto complessi e necessitano
spesso di un lavoro d’équipe, dell’intervento di ricercatori in varie
discipline. Stai lavorando al momento a nuovo progetto o dovrei
dire a una nuova scoperta?

EK: Sì. Il mio nuovo lavoro transgenico GFP Bunny è stato presentato ad
Avignone tra il 19 e il 26 di giugno. Realizzato con l’assistenza e il supporto
dell’artista Louis Bec e degli scienziati Louis-Marie Houdebine e Patrick Prunnet, il
progetto consiste nella creazione di un coniglio verde fluorescente e nella sua
integrazione sociale. Alba, come è stato battezzato, è un coniglio albino, cioè non
ha nessun pigmento sulla pelle e in condizioni ambientali ordinarie è
completamente bianco con gli occhi rosa; quando è illuminato con una particolare
luce blu, si colora di verde.

Alba è stata creata con l’EGFP, una mutazione sintetica del gene del verde
fluorescente trovato naturalmente nella medusa Aequorea Victoria. Nelle cellule
mammarie (comprese quelle umane) l’EGFP produce una fluorescenza superiore di
due magnitudo rispetto al gene originario della medusa.

La presentazione pubblica di Alba è avvenuta in un ambiente disegnato per
massimizzare il suo confort: quando lo spettatore arrivava in galleria trovava un
comune soggiorno arredato con sedie e televisione, nel quale io e Alba eravamo
osservati insieme per l’intera durata della mostra. Il mio obiettivo è stato quello di
affermare la nostra relazione e negare la possibilità che Alba potesse essere vista e
trattata come un oggetto. Il progetto si è concluso quando ho portato Alba a vivere
a Chicago con me e la mia famiglia.

Eduardo Kac è nato nel 1962 a Rio de Janeiro. Artista e scrittore, è Assistant
Professor di Arte e Tecnologia presso The School of the Art Institute di Chicago,
dove vive e lavora.




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